IL RASTRELLAMENTO DEL GHETTO
Alle 5,30 del 16 ottobre del 1943 in Roma a Via del Portico d’Ottavia si radunarono i camion e i soldati nazisti addetti alla “Judenoperation” nell’area del Ghetto ed ebbe inizio la spietata caccia agli ebrei.
La giornata non era stata scelta a caso: era la mattina di shabbat durante la festa del Succot.
Le S.S. entrarono di casa in casa arrestando intere famiglie in gran parte sorprese ancora nel sonno. L’ordine di Kappler per tutti gli ebrei del Ghetto era: essere pronti in 20 minuti, portare cibo per 8 giorni, soldi e preziosi. Furono rastrellati tutti: neonati, bambini, anziani e malati inclusi. Contemporaneamente iniziava la caccia agli ebrei per tutti i quartieri di Roma, mentre l’antico quartiere ebraico fu l’epicentro di tutta l’operazione.
Tutte le persone prelevate vennero raccolte provvisoriamente in uno spiazzo vicino ai resti del Teatro di Marcello, per poi essere caricate a forza sui camion, trasportati e rinchiusi nel collegio Militare di via della Lungara, a pochi passi dal Ghetto.
Alle 14 di quel sabato le S.S. registrarono la cattura di 1024 ebrei romani.
Per la prima volta Roma era testimone di un’operazione di massa così violenta. Tra coloro che assistettero sgomenti ci fu una donna che piangendo si mise a pregare e ripeteva sommessamente: «povera carne innocente».
Gli ebrei rimasero per oltre 30 ore al Collegio Militare, senza acqua né cibo, prima del trasferimento alla Stazione Tiburtina. Tra di loro c’erano 207 bambini.
Lunedì 18 ottobre 1943, gli ebrei rastrellati vennero caricati su un convoglio composto da 18 vagoni piombati. Il 22 ottobre il treno arrivò ad Auschwitz.
Dei 1024 ebrei catturati il 16 ottobre ne tornarono solo 16, di cui una sola donna, Settimia Spizzichino. Sabatino Finzi era un ragazzo, che pesava 36 chili, quando tornò. Tutti gli altri morirono in gran parte appena arrivati, nelle camere a gas. Nessuno degli oltre 200 bambini sopravvisse.
Memoria, quindi. Memoria che resiste a chi tenta di mistificare la storia. Memoria che onora e che i superstiti dei Lager Nazisti hanno avuto difficoltà a raccontare a causa del disagio e della vergogna per ciò che senza colpa avevano subito.
Noi ciclisti vogliamo dare loro una carezza lontana e ricordarli con le parole di una delle più grandi scrittrici italiane, ebrea per parte di madre, Elsa Morante.
I primi a tornare furono gli ebrei. Dei 1056 passeggeri del convoglio Roma-Auschwitz, partito dalla Stazione Tiburtina, i sopravvissuti erano 15: tutta gente dell’infima classe povera, come la quasi totalità dei deportati di Roma. Uno di loro, all’arrivo fu ricoverato all’Ospedale di Santo Spirito (…) L’uomo, di mestiere merciaio ambulante, giovanotto sotto i trent’anni, attualmente pesava quanto un bambino. Aveva un numero marcato sulla carne, e il suo corpo, già un tempo normale e robusto e adesso d’aspetto decrepito, era coperto di profonde cicatrici. Era febbricitante, non faceva che delirare ogni notte, e vomitava della roba nerastra, sebbene fosse incapace di trangugiare qualsiasi cibo. All’arrivo in Italia, i quindici, fra i quali una sola donna, erano stati ricevuti da un comitato di assistenza, il quale li aveva riforniti ciascuno di un biglietto ferroviario di seconda classe, di una saponetta, e (gli uomini) di un pacchetto di lame da barba. Il più vecchio di loro (di 46 anni), appena arrivato nella sua casa vuota, ci s’era rinchiuso, e là stava ancora buttato a piangere, da diversi giorni. Quando capitava di veder passare qualcuno di questi reduci, era facile che i presenti lo riconoscessero a prima vista, indicandoselo l’un l’altro: “E’ un giudio”. Per il loro peso irrisorio e il loro strano aspetto, la gente li riguardava come fossero scherzi di natura. Anche quelli di statura alta, sembravano piccoli, e camminavano piegati, con un passo lungo e meccanico, come fantocci. Al posto delle guance, tenevano due buchi, molti di loro non avevano quasi più denti e, sulle teste rase, da poco aveva preso a ricrescergli una peluria piumosa, simile a quella delle creature. Gli orecchi sporgevano dalle loro teste macilente e nei loro occhi infossati, neri o marrone, non parevano rispecchiarsi le immagini presenti d’intorno, ma una qualche ridda di figure allucinatorie, come una lanterna magica di forme assurde girante in perpetuo. E’ curioso come certi occhi serbino visibilmente l’ombra di chi sa quali immagini, già impresse, chi sa quando e dove, nella rètina, a modo di una scrittura incancellabile che gli altri non sanno leggere – e spesso non vogliono. Quest’ultimo era il caso per i giudii. Presto essi impararono che nessuno voleva ascoltare i loro racconti: c’era chi se ne distraeva fin dal principio, e chi li interrompeva prontamente con un pretesto, o chi addirittura li scansava ridacchiando, quasi a dirgli: “Fratello, ti compatisco, ma in questo momento ho altro da fare”. Difatti i racconti dei giudii non somigliavano a quelli dei capitani di nave, o di Ulisse l’eroe di ritorno alla sua reggia. Erano figure spettrali come i numeri negativi, al di sotto di ogni veduta naturale, e impossibili perfino alla comune simpatia. La gente voleva rimuoverli dalle proprie giornate come dalle famiglie normali si rimuove la presenza dei pazzi, o dei morti. E così, assieme alle figure illeggibili brulicanti nelle loro orbite nere, molte voci accompagnavano le solitarie passeggiatine dei giudii, riecheggiando enormi dentro i loro cervelli in una fuga a spirale, al di sotto della soglia comune dell’udibile.